Nella giornata di ieri ho preso parte presso lo Studio LOYENS & LOEFF di Amsterdam ad un interessante incontro con Dennis Weber, Professore di Diritto Tributario dell’Unione Europea presso l’Università di Amsterdam nonché avvocato presso il predetto Studio, avente ad oggetto i nuovi orientamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea con riferimento alla interazione delle libertà fondamentali del mercato dell’Unione Europea e la tassazione diretta nelle operazioni transnazionali.
Il Prof. Dennis Weber ha una lunga esperienza nelle cause incardinate dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, specialmente nei casi che hanno permesso di tracciare nuove rotte nella relativa giurisprudenza (si ricorda, ad esempio, Marks & Spencer, C-446/03).
Tra i diversi argomenti oggetto di discussione vi è stato quello dello sviluppo nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Giustizia del c.d. “The per-element approach”, termine coniato dallo stesso Prof. Weber.
Con tale termine si intende fare riferimento, con riguardo al diverso trattamento riservato da uno Stato Membro ad un gruppo fiscale integrato (laddove il gruppo d’imprese viene sostanzialmente trattato, a livello fiscale, come un unico contribuente) a seconda che sia composto da sole imprese residenti o anche da imprese residenti in più Paesi membri, alla possibilità di verificare la violazione del principio di non discriminazione, in relazione alla libertà di stabilimento degli operatori economici nel mercato dell’Unione Europea, rispetto ai singoli vantaggi riservati alle società facenti parte del gruppo, piuttosto che alla semplice circostanza dell’esistenza o meno del gruppo fiscale integrato.
La Corte di Giustizia nelle prime pronunce sembrava non voler recepire tale approccio, ritenendo che nell’ambito della logica del gruppo fiscale integrato di imprese, salvo eccezioni, non si potesse parlare di violazione del principio di non discriminazione, atteso che l’estensione, da parte di uno Stato membro, dei benefici fiscali previsti per il gruppo fiscale integrato di imprese, composto da sole imprese residenti, a quello composto anche da imprese non residenti avrebbe messo in pericolo l’esigenza di tutelare la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri.
Il caso Marks & Spencer
Infatti, nel caso Marks & Spencer (C-446/03, 13 Dicembre 2005) la Corte di Giustizia affermava che la normativa dell’Unione Europea non ostava alla normativa di uno Stato membro che escludesse in modo generalizzato la possibilità, per una controllante residente, di dedurre dal suo reddito imponibile perdite subite in un altro Stato membro da una controllata registrata sul territorio di quest’ultimo, mentre riconosce tale possibilità per le perdite subite da una controllata residente.
Solo in via eccezionale, invece, la Corte asseriva essere contraria al diritto dell’Unione Europea l’esclusione di una siffatta possibilità per la controllante residente quando, da un lato, la controllata non residente avesse esaurito le possibilità di presa in considerazione delle perdite esistenti nel suo Stato di residenza per l’esercizio fiscale considerato nella domanda di sgravio, nonché degli esercizi fiscali precedenti ed in cui, dall’altro, tali perdite non potessero essere prese in considerazione nel suo Stato di residenza per gli esercizi fiscali futuri né da essa stessa, né da un terzo, in particolare in caso di cessione della controllata a quest’ultimo.
Il caso X Holding
Lo stesso concetto veniva ripreso più tardi dalla Corte di Giustizia UE nel caso X Holding (C-337/08).
In tale caso la Corte premetteva che la situazione di una società controllante residente che intendesse costituire un’entità fiscale unica con una controllata residente e quella di una società controllante residente che desiderasse costituire un’entità fiscale unica con una controllata non residente, fossero da ritenersi oggettivamente comparabili, dal momento che entrambe mirano a trarre vantaggio da tale regime, che consente, in particolare, di consolidare in capo alla società controllante gli utili e le perdite delle società comprese nell’entità fiscale unica e di attribuire carattere fiscalmente neutro alle operazioni intragruppo.
Pur rilevando la sussistenza di una potenziale discriminazione tra unità fiscali puramente domestiche e transnazionali ritenute comparabili, la Corte affermava che la disparità di trattamento doveva comunque ritenersi giustificata da un motivo imperativo di interesse generale.
Tale motivo giustificativo del diverso trattamento di situazioni comparabili era individuato nella circostanza che la tutela della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri potrebbe rendere necessaria l’applicazione, alle attività economiche delle società residenti in uno di tali Stati, delle sole norme tributarie di quest’ultimo, per quanto riguarda tanto i profitti quanto le perdite.
Ciò era giustificato sul rilievo che, atteso che la società controllante può decidere a proprio piacimento di costituire un’entità fiscale con la propria controllata e, altrettanto liberamente, di sciogliere tale entità da un anno all’altro, la possibilità di includere nell’entità fiscale unica una controllata non residente finirebbe col lasciarle la libertà di scegliere il regime fiscale applicabile alle perdite di tale controllata ed il luogo di imputazione delle stesse.
In altri e più chiari termini veniva argomentato che, potendo il perimetro dell’entità fiscale unica essere modificato al fine di includere controllate residenti o non residenti, la società controllata avrebbe la possibilità di scegliere arbitrariamente lo Stato membro in cui dedurre le perdite.
In definitiva, la Corte di Giustizia UE sembrava affermare, come regola generale, che una disparità di trattamento tra un gruppo fiscale integrato d’imprese domestico e uno transnazionale sarebbe giustificato dalla necessità di tutelare la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri, senza fare distinzioni a seconda del beneficio fiscale rispetto al quale il gruppo fiscale integrato facesse valere la violazione del principio di non discriminazione.
Il cambio rotta nei casi Groupe Steria e N BV
Più recentemente, invece, la Corte di Giustizia sembra aver riconsiderato la propria posizione, ritenendo, invece, che nell’ambito del gruppo fiscale integrato d’imprese il test della violazione del principio di non discriminazione debba essere operato con riferimento ai singoli benefici rivendicati dalle imprese, al fine di verificare se gli stessi abbiano o meno un impatto sulla ripartizione del potere impositivo tra gli Stati.
Infatti, nella causa Groupe Steria (C-386/14, 2 settembre 2015) la Corte di Giustizia ha testualmente affermato che: “Non si può tuttavia dedurre dalla sentenza X Holding (C‑337/08, EU:C:2010:89) che qualsiasi differenza di trattamento tra società appartenenti ad un gruppo fiscale integrato, da un lato, e società non appartenenti ad un tale gruppo, d’altro lato, sia compatibile con l’articolo 49 TFUE. In tale sentenza, infatti, la Corte ha soltanto esaminato il requisito della residenza quale requisito di accesso al regime di integrazione fiscale e ha statuito che tale requisito era giustificato, tenendo conto del fatto che detto regime permette il trasferimento delle perdite all’interno del gruppo fiscale integrato”, ritenendo, per l’effetto, che: “ Per quanto riguarda i vantaggi fiscali diversi dal trasferimento delle perdite all’interno del gruppo fiscale integrato, occorre, di conseguenza, valutare separatamente, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 34 delle sue conclusioni, se uno Stato membro possa riservare tali vantaggi alle società che fanno parte di un gruppo fiscale integrato e, pertanto, escluderli in situazioni transfrontaliere”.
Da ultimo, ancora, nella causa N BV (C-399/16, 22 febbraio 2018) la Corte di Giustizia ha applicato il medesimo “Per-element approach” anche in caso di perdite concludendo che: “Gli articoli 49 e 54 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a un regime nazionale, come quello oggetto del procedimento principale, che esclude per una società controllante stabilita in uno Stato membro la deducibilità degli interessi inerenti ad un prestito concluso con una società collegata al fine di finanziare un conferimento di capitale in una controllata avente sede in un altro Stato membro, laddove, nel caso in cui la controllata avesse sede nello stesso Stato membro, la società controllante potrebbe godere della deducibilità costituendo con quest’ultima un’entità fiscalmente integrata”.
In questo caso interessante è anche la notazione della Corte secondo cui l’esigenza di prevenire le pratiche abusive non può giustificare il diverso trattamento delle operazioni domestiche rispetto a quelle transfrontaliere, considerato che non vi è prova che il rischio di abuso sia più alto rispetto alle seconde, perché ”qualora una società controllante finanzi l’acquisto di azioni di una controllata per mezzo di un prestito concluso con un’altra società collegata, il rischio che tale prestito non corrisponda ad alcuna operazione economica effettiva e sia unicamente diretto a creare artificiosamente un onere deducibile non è minore se la società controllante e la società controllata sono entrambe residenti nel medesimo Stato membro e costituiscono congiuntamente un’entità fiscale unica rispetto all’ipotesi in cui la controllata abbia sede in un altro Stato membro e che, conseguentemente, non le sia consentito costituire un’entità fiscale unica con la società controllante”.
In definitiva, la predetta disamina dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, oltre a confermare il carattere dell’attuale “fiscalità internazionale” come una vera e propria Fiscalità liquida© (che muta costantemente nei principi e nelle regole adattandosi al nuovo contesto economico) dimostra, da un lato, l’espansione del principio di non discriminazione nell’ambito dell’imposizione diretta e, dall’altro, il venir meno del pregiudizio per cui le pratiche di abuso del diritto sarebbero maggiormente diffuse nelle operazioni internazionali piuttosto che in quelle puramente domestiche.