Abuso del diritto: attenzione a “trucchi” e pianificazione

In un’epoca in cui si moltiplicano le offerte nel mercato professionale (e pseudo-professionale) di “trucchi” e “stratagemmi” che prometterebbero ai contribuenti un risparmio fiscale considerevole, talvolta anche attraverso l’utilizzo di sofisticati strumenti di pianificazione fiscale, bisogna fare attenzione al fatto che il Fisco dispone di altrettanti strumenti idonei a negare i vantaggi fiscali indebiti e a recuperare le imposte illegittimamente risparmiate.

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1. Abuso del diritto e risparmio fiscale indebito

L’art. 10-bis della legge n. 212/2000, introdotto con il D.Lgs. n. 128/2015, inserisce ufficialmente nel nostro ordinamento fiscale il concetto di abuso del diritto (o elusione fiscale), già precedentemente elaborato dalla giurisprudenza, con il quale si identificano “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.

Con la sentenza 9 maggio 2022, n. 14493, la Suprema Corte, anche sulla scorta dei propri precedenti giurisprudenziali, ha definito l’abuso del diritto come: “un principio generale antielusivo, rinvenibile negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano oltre che nei principi comunitari, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente”.

Alla luce della nozione prevista dalla legge, per essere considerate abusive le operazioni devono avere le seguenti caratteristiche:

  1. realizzare un vantaggio fiscale indebito;
  2. essere prive di sostanza economica;
  3. non avere ragioni extrafiscali.

Tale impostazione è stata sostanzialmente confermata anche dall’Agenzia delle Entrate, la quale con Risposta ad interpello n. 215/2022, ha ritenuto che, secondo il disposto del comma 1 del citato articolo 10-bis, affinché un’operazione possa essere considerata abusiva l’Amministrazione finanziaria deve identificare e provare il congiunto verificarsi di tre presupposti costitutivi:

  1. la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito“, costituito da “benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”;
  2. l’assenza di “sostanza economica” dell’operazione o delle operazioni poste in essere consistenti in “fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”;
  3. l’essenzialità del conseguimento di un “vantaggio fiscale“.

Secondo il Fisco, l’assenza di uno dei tre presupposti costitutivi dell’abuso determina un giudizio di assenza di abusività. Con il successivo comma 3, il legislatore ha chiarito espressamente che non possono comunque considerarsi abusive quelle operazioni che, pur presentando i tre elementi sopra indicati, sono giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali (anche in ordine organizzativo o gestionale che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale).

1.1 Il vantaggio fiscale indebito

Il risparmio fiscale derivante da un’operazione si definisce indebito quando i relativi benefici, anche se non immediati, sono realizzati in contrasto con la finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

In sostanza con lo strumento dell’abuso del diritto si intende contrastare gli “stratagemmi”, le pianificazioni e le strategie fiscali che, da un lato, rispettano formalmente la normativa fiscale ma, dall’altro, realizzano dei vantaggi non voluti dal legislatore che, quindi, vengono ottenuti aggirando la normativa adoperata dal contribuente.

Da questo punto di vista, per capire se il risparmio fiscale è indebito, bisogna individuare gli obiettivi e gli interessi tutelati dalla norma di cui si è servito il contribuente e confrontarli con lo scopo concretamente realizzato da quest’ultimo, verificando se essi coincidono o meno.

Qualora gli obiettivi e gli interessi tutelati dalla norma di cui si è avvalso il contribuente non emergano in maniera chiara dalla sua interpretazione, per la verifica della sussistenza dell’abuso del diritto è possibile, ai fini del predetto confronto, fare riferimento ai principi dell’ordinamento tributario che sono riconducibili a detta specifica norma.

La Corte di Cassazione con la sentenza 9 maggio 2022, n. 14493, ha osservato che costituisce abuso del diritto l’operazione economica che, prendendo in considerazione sia della volontà delle parti implicate sia del contesto fattuale e giuridico, presupponga quale elemento predominante e assorbente della transazione l’obiettivo di ottenere dei vantaggi fiscali.

Ne deriva che il divieto di comportamenti abusivi non si configura per quelle operazioni che possano giustificarsi anche a prescindere dal mero conseguimento del risparmio d’imposta.

La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.

Per cui non sarebbe configurabile l’abuso del diritto se non sia stato provato dall’Ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici

D’altra parte, l’opzione del soggetto passivo per l’operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un “indebito” vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale.

1.2. La mancanza di sostanza economica dell’operazione

La disposizione sull’abuso del diritto stabilisce che per operazioni prive di sostanza economica si intendono i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, che non producono effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali.

Questo accade nelle ipotesi di operazioni che, considerate complessivamente, hanno l’effetto di compensarsi o annullarsi a vicenda, non producendo alcuna modificazione giuridica ed economica concreta della posizione del contribuente, salvo che sotto il profilo fiscale.

A titolo esemplificativo la legge prevede che elementi sintomatici della mancanza di sostanza economica sono:

  • la non coerenza della qualificazione formale delle operazioni, prese singolarmente, con il loro fondamento giuridico nel loro insieme. Questo si verifica quando, nonostante le operazioni tendano a realizzare uno scopo economico concreto (non fiscale), quest’ultimo è ottenuto attraverso l’utilizzo di uno strumento giuridico diverso da quello che avrebbe consentito di realizzarlo in maniera diretta e immediata;
  • la non conformità degli strumenti giuridici alle normali logiche di mercato (es. prassi commerciale).

Sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza 9 n. 3078, ha avuto modo di rimarcare i suoi precedenti orientamenti in merito alla necessità di “sostanza economica” delle operazioni per non essere ritenute “abusive” (Cassazione n. 438/2015; n. 439/2015; n. 5155/2016; n. 30404/2018; n. 24294/2019; n. 34595/2019), in conformità all’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, recante la disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, con riferimento alla Raccomandazione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva.

Secondo la Suprema Corte, sono due gli indici di mancanza di sostanza economica:

  • la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme;
  • la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.

Diversamente, per vantaggi fiscali indebiti si considerano i benefici realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

Secondo la predetta Raccomandazione “una costruzione o una serie di costruzioni è artificiosa se manca di sostanza commerciale” (4.4), o più esattamente di “sostanza economica” (4.2), e “consiste nell’eludere l’imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali, contrasta con l’obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali“.

Peraltro, la Suprema Corte ha ricordato che la stessa raccomandazione UE (4.4 lett d), precisa che “Per determinare se la costruzione o la serie di costruzioni è artificiosa, le autorità nazionali sono invitate a valutare… se… le operazioni concluse sono di natura circolare“, confermando che anche nel nuovo assetto normativo restano abusive le costruzioni artificiose e circolari (così come anche chiarito dalla Corte di Giustizia UE nella causa C-126/10, punto 34).

Con la sentenza 9 maggio 2022, n. 14493, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà, a condizione che non si traduca in uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d’impresa, posto in essere per realizzare non la causa concreta del negozio, ma esclusivamente o essenzialmente il beneficio fiscale.

Per cui, bisogna escludere che la mera astratta configurabilità di un vantaggio fiscale sia sufficiente ad integrare la fattispecie abusiva, poichè è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice risparmio di imposta e l’accertamento della effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale.

In altri termini, l’inopponibilità al fisco dell’operazione presuppone che essa abbia quale elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il Fisco, ossia che non abbia una giustificazione economica apprezzabile differente dall’intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando, come anzidetto, che incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale.

1.3. L’assenza di ragioni extrafiscali

La legge prevede che per configurare l’abuso del diritto, inoltre, le operazioni non devono essere giustificate da scopi diversi dal solo risparmio fiscale.

Ne deriva che, al contrario, le operazioni possono considerarsi lecite quando sono giustificate da ragioni non fiscali a carattere non marginale, anche di tipo organizzativo e gestionale, che hanno come obiettivo il miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale svolta.

In pratica, se oltre all’obiettivo di conseguire un risparmio d’imposta il contribuente ha perseguito anche altri scopi legati al miglioramento della propria attività economica sostanziale, il Fisco non considera abusive le relative operazioni.

In particolare, se spetta all’Amministrazione finanziaria dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, grava invece sul contribuente l’obbligo di provare che, oltre al risparmio fiscale, le operazioni realizzano anche scopi diversi di carattere economico-sostanziale.

Tale prova contraria a carico del contribuente risulta particolarmente gravosa quando la pianificazione fiscale messa in campo non sia stata a suo tempo studiata anche alla luce della normativa sull’abuso del diritto.

La Suprema Corte con la sentenza 9 maggio 2022, n. 14493, ha aggiunto che il carattere abusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, presuppone quanto meno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco.

Per questa via, la Corte di legittimità ha stabilito che l’applicazione di tale principio deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa, anche in considerazione dei principi di libertà d’impresa e di iniziativa economica e del principio di proporzionalità, non potendo il controllo del Fisco spingersi fino ad imporre l’utilizzo di strumenti giuridici o soluzioni economiche, diverse da quelle giuridicamente ed economicamente disponibili, solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale.

Infatti, come più volte ribadito dalla giurisprudenza comunitaria e di legittimità, l’opzione del contribuente per l’operazione negoziale che risulti fiscalmente meno gravosa non può ritenersi di per sé “contraria” allo scopo della disciplina normativa tributaria, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà di scelta.

Il contribuente ha la possibilità di scegliere il regime fiscale preferito e di rimanervi assoggettato in relazione ai presupposti impositivi od agevolativi considerati dalla norma tributaria che regola la operazione compiuta, non essendo invece consentito all’operatore economico conseguire i benefici fiscali, attribuiti in relazione alla effettuazione di una determinata operazione giuridico-economica, utilizzando strumenti negoziali diversi per i quali l’ordinamento tributario prevede un regime fiscale differente, anche qualora le operazioni abbiano il medesimo risultato economico.

2. I pericoli del risparmio fiscale “abusivo”

Dal momento che l’abuso del diritto si configura in relazione a circostanze sostanziali, riguardanti il singolo caso concreto, non è possibile affermare l’esistenza di strumenti di pianificazione fiscale standard il cui utilizzo escluda, in linea di principio, l’abusività dell’operazione da compiersi, ma detta verifica deve essere necessariamente operata alla luce del contesto economico in cui si inseriscono.

Fondamentale importanza assume lo studio della funzione economica sostanziale della operazione e l’apprezzamento della rilevanza extrafiscale degli obiettivi che questa mira a realizzare la quale, una volta accertata, lascia spazio alla scelta delle opzioni fiscali che comportano il minore carico fiscale.

In assenza di tali valutazioni, l’affidamento a “trucchi”, “stratagemmi” e pianificazioni fiscali astratte diventa particolarmente pericoloso, atteso che in caso di verifica da parte del Fisco il contribuente può ritrovarsi nella difficile situazione di non riuscire a rinvenire elementi difensivi a proprio favore o, ancora peggio, di aver precostituito elementi di prova che, nei fatti, si rivelino controproducenti.

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3. Abuso delle convenzioni internazionali: la disciplina

Con l’intensificazione, soprattutto negli ultimi anni, dei processi di internazionalizzazione e di globalizzazione, favoriti in particolar modo dall’abbattimento delle barriere doganali all’interno dell’Unione Europea, si è venuto progressivamente a creare un nuovo assetto dal punto di vista della fiscalità internazionale.

Ciò, però, ha contemporaneamente provocato una serie di problemi di doppia imposizione fiscale internazionale, in quanto il contribuente, a causa di possibili distorsioni, può finire per trovarsi assoggettato agli obblighi tributari di ben due Stati diversi.

Al tempo stesso, però, il contribuente può anche porre in essere un vero e proprio abuso delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, sfruttando eventuali divergenze con quanto sancito dagli ordinamenti interni dei vari Paesi al fine di non ottemperare ai propri obblighi tributari.

3.1. Abuso delle convenzioni internazionali: caratteristiche generali

Più in particolare, i metodi utilizzati per realizzare fenomeni di abuso delle convenzioni internazionali sfruttando i meccanismi dell’evasione o dell’elusione fiscale possono essere generalmente ricondotti a due schemi tradizionali:

  • trasferimento del contribuente, che si viene a configurare quando una persona fisica o un ente si colloca in un’area con una pressione fiscale più mite rispetto a quella d’origine;
  • trasferimento della materia imponibile, che, a sua volta, può realizzarsi sia con la semplice allocazione strumentale delle fonti di produzione del reddito sia mediante una sua riqualificazione (il caso classico è quello in cui i dividendi vengono mascherati sotto forma di royalties).

Entrambi questi schemi a loro volta vengono attuati, in concreto, secondo appositi metodi di aggiramento delle norme tributarie, che possono classificarsi in tre distinte categorie:

  • Treaty shopping: con questo metodo si cerca di sfruttare un determinato regime fiscale vantaggioso come previsto da una delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, generalmente situando strumentalmente una struttura economica (che viene definita conduit, in quanto funge da mero canale di trasferimento di redditi di cui non è titolare) in uno Stato aderente alla predetta Convenzione, al solo scopo di poter usufruire, mediante tale struttura, di tutte le agevolazioni fiscali contenute nella Convenzione;
  • Directive shopping: mediante tale metodo un ente collocato in uno Stato non appartenente all’Unione Europea situa un secondo ente in uno Stato membro dell’U.E., con il quale il primo Paese ha stipulato una Convenzione contro le doppie imposizioni, e ciò al solo scopo di poter usufruire del regime fiscale più favorevole previsto dalla disciplina dell’Unione Europea;
  • Rule shopping: questo metodo consiste nella ricerca di quella disposizione fiscalmente più favorevole contenuta all’interno di una Convenzione internazionale, allo scopo di adeguare ad essa tutte le future operazioni fiscali che verranno poste in essere.

3.2. Abuso delle convenzioni internazionali: il c.d. treaty shopping

Il treaty shopping è una modalità di abuso delle convenzioni internazionali che prevede l’inserimento di una (o più) strutture di comodo (le cosiddette”conduit companies“) tra lo Stato in cui il reddito viene prodotto e il Paese dove è collocato il destinatario di tale reddito.

Più nello specifico, il treaty shopping viene a configurarsi mediante le conduit companiesovverosia un fenomeno di interposizione di catene di società, nel quale alcuni enti vengono sfruttati per trasferire redditi da Stati che prevedono una elevata imposizione fiscale a Stati dove, invece, la tassazione risulta più lieve.

Oltre alle direct conduit companies, sono molto utilizzate anche le stepping stones, ovverosia delle società che, sfruttando un vero e proprio gioco di “ponti tra società”, sostengono elevate spese a favore di una diversa società collocata in un Paese dove è prevista una tassazione inferiore o addirittura nulla.

3.3. Abuso delle convenzioni internazionali: il rule shopping

Le pratiche maggiormente adottate nell’ambito del rule shopping investono le disposizioni convenzionali sul regime dei dividendi, in relazione ai quali il modello OCSE prevede l’assoggettamento ad imposizione anche nello Stato della fonte, attraverso l’applicazione di una ritenuta che, generalmente, varia tra il 5 ed il 15%.

Il contribuente, per evitare tale ritenuta, potrebbe abusare delle convezioni internazionali facendo ricadere la propria fattispecie produttiva di reddito nell’ambito di un’altra disposizione contenuta nei Trattati contro le doppie imposizioni. Il caso più diffuso è quello del cosiddetto dividend washing, mediante il quale si cerca di trasformare il dividendo in plusvalenza di modo da sfruttare di una minore imposizione fiscale.

Il fenomeno del dividend washing può inoltre rientrare anche nella categoria del treaty shopping qualora l’alienazione delle partecipazioni (che generalmente prevede anche la presenza di una clausola di retrocessione per il riacquisto delle stesse, una volta avvenuta la distribuzione dei dividendi) avvenga nei confronti di una società residente in uno Stato che garantisce una minore imposizione fiscale dei dividendi stessi.

3.4. Abuso delle convenzioni internazionali: gli accordi preventivi e gli interpelli

Per porre rimedio al sempre più crescente abuso delle convenzioni internazionali da parte dei contribuenti, oltre agli strumenti di cui ciascuno Stato internamente dispone, recentemente si è anche cercato in vari modi di intensificare l’attività di cooperazione internazionale, mediante la stipula di numerose convenzioni tra i vari Paesi, ispirate a sperimentati modelli di riferimento elaborati da Organismi internazionali.

Più in particolare, con il Decreto Legislativo n. 147/2015 il nostro legislatore ha conferito maggiore organicità alla disciplina del ruling di standard internazionale.

Il nuovo regime, infatti, consente anzitutto alle imprese con attività internazionale di addivenire ad accordi preventivi con l’Agenzia delle Entrate, aventi ad oggetto: a) i criteri e i metodi di determinazione dei prezzi di trasferimento e dei valori patrimoniali di ingresso ed uscita, in caso di trasferimento della residenza; b) l’applicazione di norme, anche convenzionali, concernenti l’attribuzione di utili o perdite ad una stabile organizzazione; c) la valutazione preventiva dei requisiti che configurano o meno una stabile organizzazione sul territorio dello Stato; d) l’applicazione di norme, anche convenzionali, riguardanti l’erogazione o la percezione di dividendi, interessi e royalties e altri componenti reddituali a o da soggetti non residenti.

In secondo luogo, è stato stabilito che, salvo che intervengano dei cambiamenti delle circostanze di fatto e/o di diritto, gli accordi in esame vincolino le parti per il periodo d’imposta nel corso del quale sono stipulati e per i quattro successivi.

Inoltre l’art. 2 del predetto Decreto ha previsto che le imprese che intendono effettuare investimenti nel territorio dello Stato di ammontare non inferiore a quindici milioni di euro, con significative e durature ricadute sull’occupazione, debbano presentare all’Agenzia delle Entrate un’istanza di interpello, allo scopo di rendere noto a quest’ultima il trattamento fiscale del piano d’investimento e delle eventuali operazioni straordinarie connesse alla sua realizzazione.

Con tale istituto, inoltre, è possibile richiedere all’Agenzia delle Entrate anche una valutazione preventiva in merito:

  • all’eventuale assenza di abuso del diritto o elusione fiscale;
  • alla sussistenza delle condizioni per la disapplicazione di disposizioni antielusive;
  • all’accesso ad eventuali istituti o regimi previsti dall’ordinamento tributario.

Le richieste di interpello possono poi riguardare anche tributi non amministrati dall’Agenzia delle Entrate: in tal caso, quest’ultima provvederà ad inoltrare l’istanza agli enti competenti, che renderanno in via autonoma la risposta.

La richiesta di interpello deve essere evasa dall’Agenzia delle Entrate entro il termine di 120 giorni, prorogabili, nel caso siano necessarie ulteriori integrazioni, di ulteriori 90 giorni.

Come chiarito nella Relazione Illustrativa al D.Lgs. n. 147/2015:

  • l’investitore deve presentare un business plan, all’interno del quale devono essere indicati l’ammontare, i tempi e le modalità di realizzazione, l’incremento occupazionale e gli altri riflessi dell’investimento;
  • l’Agenzia delle Entrate deve fornire un’attività di consulenza ad ampio raggio, che può riguardare sia aspetti interpretativi sia aspetti applicativi della normativa, compresa la possibilità di avvalersi del regime del consolidato, nazionale o mondiale, e della disapplicazione delle regole sulle società controllate estere (c.d. “CFC rule);
  • non è pregiudicato il diritto dell’investitore di avvalersi, per questioni diverse da quelle oggetto della procedura in esame, delle altre forme di interpello previste dall’ordinamento;
  • il contenuto della risposta vincola l’Amministrazione finanziaria e resta valido finché restano invariate le circostanze di fatto e di diritto sulla base delle quali la risposta è resa, con conseguente nullità di tutti gli atti impositivi o sanzionatori emessi dall’Amministrazione finanziaria che non risultino conformi a quanto stabilito.

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4. Consulenza fiscale internazionale per il caso concreto

Le informazioni sopra indicate hanno carattere meramente generale, perché all’atto pratico la normativa fiscale internazionale è costellata di eccezioni e deroghe da applicarsi a seconda dei dettagli del preciso caso concreto in esame e che, quindi, non possono essere sottovalutate.

La fiscalità internazionale è la materia dei dettagli. Spesso accade che, anche un singolo dettaglio del caso concreto, apparentemente irrilevante, richieda una soluzione della problematica completamente diversa da quella ritenuta adeguata a un primo sguardo della situazione.

Inoltre, l’approfondimento della situazione concreta spesso esclude delle irregolarità che il contribuente pensava di aver commesso e, invece, mette in luce delle problematiche che il contribuente nemmeno pensava di avere.

Questo può capitare se il contribuente esamina la propria posizione dal punto di vista di una sola norma ritenuta “a priori” applicabile, quando, invece, il caso deve essere inquadrato, attraverso la necessaria analisi condotta alla luce dell’intero ordinamento tributario, sotto il profilo di una diversa norma.

Quindi, l’analisi fiscale internazionale è necessaria per inquadrare tutti i dettagli sostanziali del caso in esame ed evitare errori di valutazione da cui possano scaturire violazioni fiscali che darebbero luogo al recupero delle imposte evase e all’applicazione delle sanzioni da parte dell’Agenzia delle Entrate, tali da erodere il reddito prodotto dal contribuente e causargli un grave danno economico.

D’altra parte, la difesa da un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate non può mai essere efficace quanto la prevenzione delle violazioni fiscali attuata con una strategia di analisi preventiva.

Quindi la verifica da parte di un professionista specializzato in fiscalità internazionale circa le problematiche del preciso caso concreto costituisce un passaggio essenziale.

Lo Studio ITAXA ha maturato una lunga esperienza nell’analisi delle questioni di fiscalità internazionale.

Se desideri richiedere una consulenza fiscale internazionale allo Studio ITAXA per il tuo preciso caso concreto, scrivici all’indirizzo info@itaxa.it oppure compila il Modulo di contatto.

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Avv. Antonio Merola

Avvocato tributarista specializzatosi in Fiscalità Internazionale in Olanda presso l’International Tax Center (ITC Leiden) dell’Università di Leiden con LL.M. (Master of Laws) in International Tax Law (dopo un Master Universitario in Pianificazione Tributaria Internazionale e un Master Universitario in Diritto Tributario in Italia), Partner dello Studio ITAXA specializzato in Consulenza Fiscale Internazionale, da diversi anni si occupa di Consulenza Fiscale e Contenzioso Tributario a favore di Persone Fisiche e Società.