Quest’oggi ho preso parte alla conferenza “The Principle Purpose Test”, tenutasi ad Amsterdam, organizzata dall’ “Amsterdam Centre for Tax Law” dell’Università di Amsterdam, insieme al “Tax Policy Center“dell’Università di Losanna, all’ “Institute of Tax Law” dell’Università di Leuven e al “Finance and Tax Department” dell’Univeristà di Cádiz , a cui hanno partecipato importanti relatori, tra i quali: Prof. Stef van Weeghel (Università di Amsterdam), Prof. Luc De Broe (Università di Leuven), Prof. Robert Danon (Università di Losanna), Prof. Peter Wattel (Università di Amsterdam), Prof. Dennis Weber (Università di Amsterdam) e Prof. Sjoerd Douma (Università di Amsterdam).
Punto di partenza della discussione è stata l’implementazione delle misure contenute nell’Azione 6 del Progetto BEPS, relativamente al diniego dei benefici convenzionali per quei soggetti che perseguono l’unico scopo di abusare delle Convenzioni contro le doppie imposizioni per conseguire dei vantaggi indebiti.
Tale obiettivo viene perseguito richiedendo agli Stati, in primo luogo, esprimendo la loro intenzione, oltre di eliminare la doppia imposizione, anche di combattere i fenomeni di doppia non imposizione, quali evasione ed elusione fiscale internazionale, con particolare riferimento a quelli di c.d. treaty shopping, così come previsto nel Preambolo del nuovo modello di Convenzione contro le doppie imposizioni OCSE ovvero nell’art. 6 della Convenzione Multilaterale BEPS.
Ciò ha comportato anche una modifica del contenuto degli articoli del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, laddove l’OCSE ha previsto che, al fine di contrastare i fenomeni di c.d. treaty shopping, gli Stati possano avvalersi di 3 alternative, vale a dire:
- l’adozione della clausola PPT (Principle Purpose Test) insieme a quella LOB (Limitation of Benefit);
- la previsione della sola clausola PPT (Principle Purpose Test);
- la clausola LOB (Limitation of Benefit) che si accompagni ad una specifica previsione relativa a particolari tipologie di società conduit (interposte).
Treaty shopping: clausola LOB
Più precisamente, la clausola antiabuso LOB rende disponibili i benefici convenzionali solo a quelle società che soddisfano determinati requisiti in termini di forma legale, proprietà, attività svolte, ovvero elementi che testimonino uno stretto legame tra l’entità e il Paese rispetto al quale si chiede l’applicazione dei benefici convenzionali.
La prima clausola dettagliata LOB venne perfezionata nell’anno 1989, nel Trattato Germania-Stati Uniti, per poi essere compresa nella maggior parte dei trattati degli Stati Uniti.
Successivamente è stata inclusa nel Commentario al Modello OCSE 2003 quale clausola per subordinare il riconoscimento dei benefici fiscali a precise condizioni, per poi essere incorporata nell’articolo 29 del nuovo Modello di Convenzione OCSE 2017 e nell’articolo 7 (paragrafi da 8 a 13) del Modello di Convenzione Multilaterale BEPS.
Tale regola prevede un applicazione a step, laddove il mancato soddisfacimento di una condizione fa sì che si debba andare avanti per vagliare tutte le altre, fino alla negazione dei benefici convenzionali qualora nessuna delle condizioni previste sia applicabile.
Treaty shopping: clausola PPT
La clausola PPT, invece, ha una portata più ampia, essendo idonea a coprire fattispecie di treaty shopping che normalmente non potrebbero essere colpite dalla clausola LOB.
Detta regola prevede che se, sulla base dei fatti e delle circostanze del caso, uno degli scopi principali di una operazione o transazione è quello di ottenere, direttamente o indirettamente, dei benefici convenzionali, questi vantaggi possono essere negati, a meno che non venga dimostrato che la concessione di detti benefici sia conforme all’oggetto e allo scopo della disposizione del trattato di cui si invoca l’applicazione.
Come emerso nel corso della Conferenza, è possibile ritenere che il principio generale di anti-abuso trova le proprie origini dal principio “pacta sunt servanda” contenuto negli artt. 26 e 31 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, secondo cui le convenzioni devono essere interpretate e applicate secondo i canoni di “buona fede”, cosicché debba essere essere presa in debita considerazione lo scopo del Trattato al fine di valutare la spettanza o meno dei relativi benefici.
Così fino all’anno 2003, pur prevedendosi nel Commentario (a partire dal 1977) OCSE l’inopportunità che le Convenzioni potessero prestare il fianco a fenomeni di evasione e di elusione fiscale internazionale, tale posizione non era così drastica nei riguardi delle società conduit, per le quali ancora nel 1988 l’OCSE riteneva che gli Stati dovessero comunque applicare i benefici previsti dai trattati, per via del vincolo convenzionale, sebbene ritenuti non opportuni.
Solo con la modifica del Commentario dell’anno 2003 divenne chiaro che lo scopo dei Trattati fosse quello di prevenire l’elusione e l’evasione fiscale, a tal punto da autorizzarsi il disconoscimento delle transazioni “abusive”, fissandosi il principio per cui i benefici delle Convenzioni contro le doppie imposizioni non dovessero essere accordati qualora lo scopo principale della transazione sia quello di ottenere un vantaggio convenzionale non conforme all’oggetto e allo scopo della stessa Convenzione. Nello stesso Commentario veniva introdotta per la prima volta la clausola PPT (Principle Purpose Test), quale esempio di una specifica norma antiabuso relativa alla tassazione alla fonte di determinati tipi di reddito.
Quindi, da ultimo, la stessa clausola PPT (Pinciple Purpose Test) è stata inserita nell’articolo 29, paragrafo 9, del nuovo Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni 2017, nonché nell’art. 7, paragrafo 2, della Convenzione Multilaterale BEPS.
Le clausola antiabuso secondo la Corte di Giustizia UE
Alla tematica dell’abuso dei trattati non poteva che collegarsi anche quella dell’abuso del diritto nell’ambito dell’Unione Europea, facendo seguito alle recenti sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia EU (il 26 febbraio 2019) nell’ambito delle “cause danesi”, di cui ai procedimenti riuniti C‑116/16 e C‑117/16, per quanto concerne l’applicazione della Direttiva Madre-Figlia, e C‑115/16, C‑118/16, C‑119/16 e C‑299/16, per quanto riguarda la Direttiva Interessi-Royalties.
In questa occasione la Corte di Giustizia ha stabilito la necessità, per lo Stato membro che voglia negare i benefici delle Direttive in questione, di fare riferimento ad una precisa norma anti-abuso presente nel proprio ordinamento domestico, oppure se sia sufficiente fare riferimento ai principi o disposizioni anti-abuso nazionali o convenzionali.
Richiamando dei propri precedenti, la Corte ha rilevato come nell’ambito del diritto dell’Unione Europea sussista il principio per cui i soggetti non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente delle norme dell’Unione Europea, ivi comprese le Direttive qui involte.
Quello dell’”anti-abuso” costituisce, pertanto, un principio generale dell’Unione Europea cui i singoli Stati membri possono attingere direttamente, per negare i benefici previsti dalle Direttive, senza la necessità che questo venga recepito nei singoli ordinamenti nazionali.
In particolare, viene precisato che l’applicazione delle norme dell’Unione Europea non può essere estesa sino a comprendere pratiche abusive, ossia operazioni effettuate non nell’ambito di normali operazioni commerciali, ma unicamente allo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto dell’Unione
A ciò non osta l’argomento del diritto dei singoli Paesi membri di trarre vantaggio dalla concorrenza che s’instaura nel mercato unico dell’Unione Europea per effetto della mancata armonizzazione dell’imposizione diretta.
In definitiva, il contribuente non può beneficiare dei vantaggi delle Direttive quando l’operazione sia puramente artificiosa sotto il piano economico e sia diretta a sottrarre lo stesso alla normativa del Paese membro in considerazione. Per cui il diniego di un beneficio previsto dalle Direttive non si risolve nell’imporre un obbligo al singolo interessato in base alle stesse Direttive, ma costituisce la semplice conseguenza derivante dalla constatazione che le condizioni necessarie ai fini dell’ottenimento del beneficio richiesto, pur ricorrendo formalmente, non rispondono allo scopo della norma.
Con riferimento al rapporto tra l’operatività di detta clausola antiabuso e le Convenzioni contro le doppie imposizioni, il Collegio stabilisce che, mentre la tassazione deve corrispondere alla realtà economica, l’esistenza di una convenzione volta ad evitare le doppie imposizioni non è di per sé idonea a dimostrare l’effettività di un pagamento operato a favore di beneficiari residenti nello Stato terzo con cui tale convenzione sia stata conclusa e, quindi, la non abusività dell’operazione.
Per cui, a titolo di esempio, quando la società debitrice di interessi intenda beneficiare dei vantaggi risultanti dalla Convenzione, potrà ben versarli direttamente alle entità fiscalmente residenti in uno Stato che abbia concluso con lo Stato d’origine una Convenzione diretta ad evitare le doppie imposizioni. Ma questo non potrà escludere che nel caso in cui, ad esempio, dei dividendi sarebbero stati esentati in caso di versamento diretto alla società con sede in uno Stato terzo, la finalità della struttura di gruppo non sia estranea a qualsiasi abuso, ma non potrà contestarsi al gruppo di aver optato per una struttura siffatta piuttosto che per un versamento diretto dei dividendi alla società medesima.
La materia dell’abuso dei trattati e, in generale, dell’abuso del diritto diviene sempre più articolata, a tal punto che potrebbero già nel prossimo futuro insorgere dei contrasti tra l’approccio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e quello adottato dall’OCSE.
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